martedì 11 febbraio 2014

Tira fuori la scimitarra!

In memoria di Ado: Amico, Artista, Granata.
Ado che ha chiuso gli occhi il dodici febbraio duemiladodici, due anni domani.
Ado, ancora adesso - e sarà così finché avrò vita - quando sono un po' giù di morale e di forze, ripenso alla frase che mi scrivevi abitualmente quando mi sentivi (e sapevi leggermi TANTO bene) un po' 'pasticciata': "Tira fuori la scimitarra, Silvia! Tira fuori la scimitarra!"

Per me era semplicemente Ado, per il resto del mondo era Ado Zung: pittore, scultore, fotografo, grande anima.
Mi manca e mi mancherà sempre.
Aveva amato una cosina che avevo scritto e che desidero (ri)pubblicare, si intitolava "Toro, fantasmi e formaggini."
Ciao, Ado, io sto con il naso in su e quando vedo certi tramonti SO che c'è il tuo zampino: GRAZIE.

/

Toro, fantasmi e formaggini

Erano entrati di soppiatto, una notte, armati dell'incoscienza e dell'agilità della gioventù.
Nell’oscurità, avrebbero scoperto che il tempo non esiste e che i sogni possono diventare reali.
Da quel momento, non avrebbero più smesso di credere.


Non era stato facile scavalcare i muri diroccati e, a dirla tutta, avevano paura che qualcuno li vedesse e non capisse il motivo di quella follia.
La follia, d'altra parte, non è così facile da spiegare.
Come due gatti che decidono di vedere il mondo dall'alto, si erano arrampicati sui muri e, giunti in cima, si erano stupiti di quanto fosse stato facile.
Rimasero a guardare i palazzi lì intorno, come sul punto di fare una scelta e poi... la fecero: decisero di buttarsi dall'altra parte.
Atterrare sull'erba non evitò loro di cadere malamente; si guardarono a lungo negli occhi prima di prendersi reciprocamente a male parole.
«Ma porc... non riusciremo ad uscire di qui, lo sai?» disse Erminia.
«Non dire asinate... faremo il percorso al contrario, non vedo dove stia il problema...» replicò Eugenio.
«Il problema sta nell'asfalto: ci spaccheremo le gambe!» strillò lei.
«Ma smettila... andiamo là in mezzo?» disse lui.
«Tu sei fuori... andiamo via prima che...» sibilò lei.
Un fruscìo fra i ruderi li mise a tacere e li fece sobbalzare.
Erminia sussurrò: «Che cos'era? Un fantasma?»
Eugenio esclamò: «Sì... il Fantasma Formaggino!»


«La sai quella del Fantasma Formaggino?» disse Eugenio.
«Vieni qua che ti spalmo sul panino!» rispose Erminia.
E giù a ridere a crepapelle.
Si erano conosciuti quando, ancora troppo piccoli per guardare direttamente negli occhi gli adulti, si ritrovavano aggrappati alla rete metallica che circondava il campo.
Quella rete a rombi era gelida d'inverno e incandescente in primavera: loro, immancabilmente, si aggrappavano ad essa con le dita, incuranti del caldo o del freddo.
Ciò che gli interessava era vedere i disegni imprevedibili che quei piedi intrecciavano sull'erba o per aria, facendo viaggiare il pallone dall'uno all'altro giocatore.
E quando la palla entrava in rete, lanciavano le braccia in aria per festeggiare e poi abbracciarsi, proprio come facevano i 'grandi' allo stadio.
Poco importava che ciò accadesse di giovedì e non di domenica, poco importava che si trattasse della partitella e non della partita, poco importava che fosse il campo d'allenamento e non quello delle partite ufficiali.
Che poi... loro sapevano bene che quello, un tempo, era stato IL Campo: erano imbevuti di Toro.
I 'grandi' li portavano lì per condividere anticipazioni di quello che sarebbe accaduto la domenica e per continuare a raccontar loro le storie del passato, anche se i due bambini... oh be', Erminia ed Eugenio volevano crescere in fretta per andare allo stadio per conto loro, magari in mezzo a quelli che suonavano i tamburi e avevano le bandiere più grandi degli altri.
Le prime volte non avevano fatto caso di essere entrambi piccoli, non si erano manco guardati in faccia.


«Sei un cretino!»
«E tu sei scema!»
La discussione venne interrotta da un suono noto, un suono che faceva parte del loro vissuto, di tutte le volte in cui erano andati lì per vederli giocare.
«Hai sentito?»
«Cavoli, sì... zitta!»
Era l'inequivocabile suono dei tacchetti su per la scala che dagli spogliatoi portava al campo.
Non furono sorpresi dall'illogicità di quel suono, bensì dall'avere conferma di ciò che avevano sempre sostenuto: i Ragazzi non erano mai andati via di lì.
Fu a quel punto che li videro e smisero di respirare per alcuni secondi.


«Non voglio più venire qui.» disse Eugenio.
«Perché?» chiese Erminia.
«Perché qui succedono cose strane, ma non mi credono.» disse lui.
«Ah. Allora...» disse lei
«Allora cosa?» chiese lui.
«Niente. Io ti credo: qui succedono davvero cose strane...» rispose lei.
«Che cos'hai visto?»
«Dillo prima tu.»
«No, prima tu.»
«No, facciamo così: contiamo fino a tre e poi lo diciamo insieme, sei d'accordo?»
«Okay. Uno... due... tre!»
«FANTASMI!»
La pelle d'oca, alta un centimetro, li zittì.


«Vedi anche tu quello che vedo io?»
«Se tu stai vedendo Gabetto, la risposta è sì...»
«Guarda! Bacigalupo!»
«Capitan Valentino!»
«Maroso!»
Snocciolarono ad uno ad uno i nomi del loro personale rosario Granata, l’avevano imparato dai 'grandi' ancora prima dell'alfabeto.
Ed ebbero la conferma che i fantasmi di cui parlavano quando erano piccoli, esistevano davvero e non facevano affatto paura.
Istintivamente e contemporaneamente, sollevarono le mani per aggrapparsi alla rete, proprio come facevano quando erano bambini, quella rete che avevano visto divelta dalle ruspe.
La rete era di nuovo lì, sotto le loro dita, e le rovine erano tornate ad essere IL Campo in cui avevano trascorso tanti giovedì pomeriggio.
Entrambi non riuscirono a trattenere un singhiozzo di gioia e fu quello il momento in cui Bacigalupo li guardò, fece un cenno col capo a Castigliano, che lanciò il pallone verso Mazzola.
Il Capitano colpì il pallone facendolo saettare con potenza inaudita fino...


... a farlo cozzare con violenza sulla porzione di rete di cui i due bambini sembravano essere i pali.
SDENNNNG!
La botta aveva fatto tremare così forte il metallo, che i due avevano urlato per lo spavento e un po' per il dolore alle dita.
I 'grandi' avevano riso sonoramente e loro li avevano guardati con odio, con quell'odio che ha ancora un senso di esistere quando si è piccoli.
Fu in quel momento che si accorsero della reciproca esistenza.
«Ti sei fatta male?»
«No, mi sono solo spaventata.»
«Anche io e poi...»
«E poi non c'è niente da ridere, vero?»
«Già! Tu che classe fai?»
«Io faccio la terza e tu?»
«Io sono in quinta: quest'autunno andrò alle medie! E mi chiamo Eugenio.»
«Cavoli, sei grande, tu! Io mi chiamo Erminia.»
«Hai visto che tiro?»
«Madoi...»
Ed erano tornati ad avvolgere i fili metallici con le dita.


Si presero per mano e rimasero ancora una volta a bocca aperta: Loik li stava invitando ad entrare.
Lo fecero e si sedettero a bordo campo a guardarli giocare.
Dopo un po' gli si fece vicino il Capitano.
«Grazie per tenerci in vita...» disse loro.
«Cosa?» risposero nello stesso momento, quasi balbettando.
«I vostri pensieri, il vostro ricordo, i vostri silenzi, le vostre esultanze... ci tengono in vita. Noi non possiamo uscire da qui, ma – tutto sommato - non è un male. Il vero male è non credere ai sogni. Il nostro sogno è rimasto appeso al fianco di una collina e rimane lì, sempre in bilico, pronto a precipitare ancora ed ancora ed ancora, come è successo a noi...»
Erminia chiese: «Ma... tu... ti sei accorto che...»
Il Capitano rispose: «Se mi sono accorto che stava finendo tutto? No. Se proprio lo vuoi sapere... eravamo sull'aereo e poi ci siamo ritrovati qui. Abbiamo capito che non ne saremmo più usciti, ma almeno... almeno abbiamo un posto in cui stare...»
Si fece avanti Eugenio: «E come mai... come mai noi... vi vediamo? E perché sembra che le ruspe non siano mai passate di qui?»
Proseguì il Capitano: «Perché... non lo so. Ogni tanto succede... ogni tanto succede che qualcuno ci veda e allora... allora facciamo quello che facevamo in campo: una magia. Il Filadelfia torna a vivere e noi con esso. Non è facile, ma...»
«Anche entrare qui non è stato facile» disse Eugenio.
«E sarà impossibile uscirne...» aggiunse Erminia.
Il Capitano sospirò e poi, con voce ferma, disse loro: «No, ascoltatemi: state parlando del Fila, state parlando della nostra e vostra Casa... non di una prigione. Fate conto che sia il cuore di un grande organismo... anzi: ascoltate. Sentite le vibrazioni del suo battito? Seguite quel ritmo, seguitelo sempre: è lo stesso ritmo dei vostri sogni, quelli che ci permettono di... continuare a vivere.»


«E poi ho sentito dire... che lo butteranno giù...» digrignò Eugenio.
«Anche io... l'ho letto sui giornali...» sospirò Erminia.
«Meglio andarsene finché è ancora tutto intero e...» aggiunse lui.
«Non si può fare proprio nulla?» chiese lei.
Eugenio, torvo, le disse: «Ti ricordi quella volta in cui il pallone ci aveva quasi colpiti? Ti ricordi quanto ridevano i 'grandi'? Be'... penso che quelli che vogliono buttarlo giù, se la staranno ridendo...»
Erminia, smarrita, gli chiese: «Ma... e i fantasmi?»
Eugenio disse: «Facciamo un patto: fra qualche anno entreremo qui dentro, li cercheremo e li troveremo. Senza i 'grandi' fra i piedi sarà più facile.»
Erminia non si lasciò cogliere alla sprovvista: «Okay. Quando?»
«Quando tutto sarà perduto...» disse lui.
«... e quando tutto potrà di nuovo avere inizio.» aggiunse lei.
«Come sei filosofica, oggi...»
«Sai che novità...»


«La vita», proseguì il Capitano, «ha bisogno di continue novità per essere degna di essere vissuta. Non importa che si tratti di cose belle o cose brutte: novità. Cose nuove con un pizzico di abitudine. Vedete? Io sto per tirarmi su le maniche e i miei compagni sanno esattamente che cosa significa. E tutti insieme sappiamo che ciò che nascerà da questo piccolo gesto abituale sarà qualcosa di nuovo, di totalmente nuovo. E' chiaro, ragazzi?»
«Sì, Capitano...»
«Chiamatemi Valentino», disse ridendo, «qui siamo solo parti di quel cuore. Loro, tu, anche tu, io. E quanto a te... perché dici che sarà impossibile uscire?»
«Perché a momenti ci fracassavamo le ossa saltando giù dal muro!» rispose Erminia.
«Mi sembrate ancora piuttosto interi!» replicò ridendo il Capitano, «Ascoltatemi: volete uscire di qui? Guardatevi intorno e troverete la via.»
I ragazzi si voltarono verso le gradinate e si accorsero che non c'erano più, tutto stava tornando com'era nel momento in cui avevano dato inizio alla loro impresa.
Sui gradini d'angolo, si distinguevano due figure.
«Ma quelli... quelli siamo noi! Siamo noi e tu mi stai chiedendo se so la barzelletta del Fantasma Formaggino! No, aspetta! Siamo sempre noi, ma mi stai dicendo che butteranno giù il Fila! E guarda là!» esclamò Erminia.
«Siamo noi, noi che scavalchiamo il muro per entrare qui dentro...» disse Eugenio.
«Guarda! Guarda là! Guarda il portone! E' aperto... non potevamo passare di lì per entrare?» chiese Erminia.
«Sarebbe stato troppo facile» disse il Capitano, con una smorfia triste.
«Già... per la serie che per noi è sempre tutto difficile, no?» chiese Eugenio.
«E per la serie che il Toro è una conquista. Che gusto ci sarebbe...» aggiunse Erminia.


«Che buoni ‘sti panini! Hanno un gusto che… uh, hai già finito il tuo: vuoi un pezzo del mio?» disse Erminia.
«No, grazie… farò il pieno domenica allo stadio: mi porto sempre due panini con i formaggini e poi rimango lì a morire di sete!» esclamò Eugenio.
Non riuscivano mai ad incontrarsi allo stadio perché i 'grandi' si posizionavano in zone diverse dei distinti, però sapevano che il giovedì... il giovedì avrebbero potuto raccontarsi le loro cose, che erano le stesse cose che si raccontavano i 'grandi', ma i 'grandi' non li prendevano molto in considerazione.
Erano cresciuti a fiabe e storie sugli Invincibili, ma per i bambini è più interessante il presente, hanno tutto il futuro per pensare al passato, e il loro presente erano giocatori vivi, vegeti, magici.
I loro idoli facevano magie con la palla e lì, dietro a quella rete, era più facile vederli che non allo stadio.
Non si erano mai persi di vista e, già grandicelli, continuavano a parlare dell'impresa che avrebbero voluto compiere di lì a qualche anno.


Erano entrati di soppiatto, una notte, armati dell'incoscienza e dell'agilità della gioventù.
Nell’oscurità avrebbero scoperto che il tempo non esiste e che i sogni possono diventare reali.
Da quel momento, non avrebbero più smesso di credere.

/

La Regina della Retorica fa un piccolo inchino al Grande Maestro, all'Amico Ado che ora dipinge in cielo, e torna a fare quello che fa di solito: vivere felice (con la scimitarra a portata di mano).