mercoledì 4 settembre 2013

Deviazioni

Pensieri

Era una strada stretta, sinuosa come un serpente, in discesa, da un lato la montagna, dall’altro un dirupo, in fondo alla strada c’era un faro e quello era il nostro obiettivo.
Ne avevamo già visti alcuni e li avevamo raggiunti agevolmente, ma quello, quello più che un faro sembrava la fine del mondo, quando il mondo non era rotondo bensì piatto e, giunti ai bordi del disco, non avremmo potuto fare altro che precipitare giù.
Il mio compagno di viaggio soffriva di vertigini, ne soffriva tanto, eppure ogni faro era una conquista, ogni faro era un puntino e, tracciando la linea che univa tutti quei puntini, si andava creando un ghirigoro, un sigillo, un simbolo che avrebbe dato ulteriore forma visiva al senso del viaggio.
Era una strada stretta, sinuosa come un serpente.

Parcheggiata l’auto, avevamo fatto fatica ad aprire le portiere per il vento forte, quel vento che avremmo dovuto immaginare così forte vedendo le piante cresciute piegate non per DNA ma per fenomeni atmosferici, quel vento che non potevamo comunque immaginare così: portava via i suoni, sovrastava la nostra stessa esistenza.
Si era voltato a guardare la strada da cui eravamo arrivati e aveva detto: “Io non posso tornare indietro, non posso…” e si era accasciato con il volto fra le mani.
Poi aveva sollevato lo sguardo e si era messo a fissare la strada. “Non mi ero reso conto che fosse così stretta… se torniamo indietro precipiteremo, ci faremo male, non posso tornare indietro, non posso…”
Con un braccio gli cingevo le spalle, con l’altra mano gli accarezzavo il volto. “Allora, ascoltami… se siamo arrivati fino a qui, possiamo anche fare il percorso in senso inverso. La strada è stretta, ma è sufficientemente larga per essere percorsa e di ciò ne hai già la prova…”
Continuava a guardare la strada, ma quello che vedeva era una strada che diventava sempre più stretta, anche se non era vero.
Non era vero, ma quella era la SUA verità.

Eravamo rimasti seduti a cercare di respirare quel vento che ci faceva oscillare e poi, dal piccolo parcheggio, era partita un’auto.
“Guardala. Sta salendo, la vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, ad entrambi i lati, per non cadere giù dal dirupo?”
“Ma… ma se arriva un’auto in senso opposto?”
Il Destino aveva voluto favorirci materializzando, appunto, un’auto che procedeva in senso contrario.
“Guardale. Una sta salendo e una sta scendendo: le vedi? Vedi anche che c’è abbastanza spazio, per entrambe le auto, per non cadere giù dal dirupo o sbattere contro la montagna?”
“Ma… sì, c’è spazio…”
Era caduto il silenzio, se silenzio si può definire il ruggito del vento di un promontorio alla fine del mondo.
“Sì, c’è spazio.” Avevo detto sorridendo.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Io? No.”
Non era vero, ma quella era la MIA verità.
Quella DOVEVA essere la mia verità.

Il Destino doveva volerci molto bene poiché, poco dopo, aveva fatto sì che un camper lasciasse il parcheggio.
“Uh, guarda quel camper: è gigantesco! Vediamo come se la cava su per la salita…”
Il mio compagno di viaggio, lasciandosi stringere forte le mani, aveva seguito il procedere del camper, mentre gli snocciolavo evidenze centrimetriche sulla possibile e comoda compresenza di due mezzi sulla carreggiata.
“Forse posso farcela…”
“Certo! Andiamo: è ora di lasciarti alle spalle questa paura, forza.”
Aveva raccolto nei polmoni quanta più aria possibile prima di mettere in moto l’auto, aveva guardato quella strada stretta, sinuosa come un serpente, ed era partito.
Lentamente.
Lentamente.
Una curva dopo l’altra.
Lentamente.
Fino ad arrivare in quel punto benedetto in cui la carreggiata si faceva più larga e con essa i respiri.
Improvvisamente accostava sulla destra, proprio a ridosso della parete rocciosa.
“Che cosa fai?” Gli avevo chiesto stupita.
“Voglio fotografare quello che mi sono lasciato alle spalle.” Mi aveva risposto quasi rinato.
Ci eravamo sorrisi e per una volta ero rimasta in auto, per una volta non avevo tirato fuori la macchina fotografica, per una volta ero rimasta a guardare, solo a guardare.
Avevamo proseguito il viaggio in compagnia del ricordo di due verità non assolute, che però erano state le nostre verità e ci avevano permesso, appunto, di continuare ad accumulare chilometri e immagini e sensazioni e esperienze.

Il giorno dopo avevamo visitato un altro faro, più accessibile di quello precedente.
Dopo aver scattato decine di foto ero rimasta a fissare il vuoto, le mani appoggiate su un basso parapetto di pietre e cemento.
Il mio compagno di viaggio si era avvicinato e mi aveva toccato una spalla dicendomi: “Hey… dove sei?”
Mi capitava spesso - e mi capita tuttora - di andare ‘altrove’ e di avere bisogno che qualcuno mi richiamasse alla realtà.
“Oh… sono qui, sono qui… solo che… ti ho mai detto di essere attratta dal vuoto?”
Gli si erano rizzati i capelli in testa. “In che senso?”
“Nel senso di essere attratta dal vuoto, né più né meno.”
“Allontanati da lì, allora, vieni…” Cingendomi i fianchi mi aveva allontanata da quel parapetto così invitante per via della sua minima altezza. “Non me lo avevi mai detto…”
“Te l’ho detto adesso.” Avevo risposto sorridendo, ancora preda dell’eccitante vertigine che il vuoto da sempre esercita su di me.
“Ma tu… tu non hai mai paura?”
“Di nuovo?” Ero scoppiata a ridere. “Vedi… i momenti di estasi sono sempre più intensi degli eoni di paura e dunque… e dunque si potrebbe dire che non ho mai paura o, meglio, che preferisco fare come hai fatto tu ieri quando hai lasciato alle spalle la tua paura, mi sono spiegata?”
“Sì, ti sei spiegata, ma non avvicinarti più a nessun parapetto, OK?”
“Okay…”

Qualunque forma abbiano le verità individuali, anche quando tali verità fossero costruzioni della mente e non verità assolute, vengano rispettate e tenute in gran conto: la vera ricchezza è la differenza, non il quoziente della verità in sé, sia che si stia andando verso un faro per una strada impervia, sia che si stia per spiccare il volo da un dirupo, sia che si stia già pensando al derby.
Già.
Inizia settembre e il primo pensiero, per quest’anno, è quello.
Il secondo pensiero è: ho paura.
Il terzo pensiero è: ci fanno neri.
Il quarto pensiero è: non vedo l’ora.
Il quinto pensiero è: sei una masochista.
Il sesto pensiero è: no, sono una del Toro.
Poi i pensieri si confondono tra loro e decido di pensare al giorno dopo, quando tutto sarà compiuto.

Puff puff pant pant.

Ogni tanto mi tornano alla mente ricordi di viaggi lontani nel tempo.
Magari dimentico qualche bel panorama, ricordo sempre le emozioni.

Come? Non ho quasi parlato del Toro in questo ‘temino’? Forse sì e forse no: talvolta il pensiero  devia verso altre strade.
Il pensiero ha deviato, solo il pensiero.
Il cuore no: lui non devia mai.
Amen.



Questa settimana tocca a “Guide Me Home” (dall’album ‘Barcelona’, 1988, Freddie Mercury & Montserrat Caballé).





Freddie, domani compi 67 anni: grazie per essere venuto su questo pianeta e per aver condiviso con noi grande parte della tua immensa anima. Non so perché insistano a dirti morto… forse si sta perdendo la comprensione della parola IMMORTALE (e non vale solo per te).