mercoledì 24 luglio 2013

Sulle colline e molto lontano

"Sì, siamo del Toro"


Faceva troppo caldo quella sera.
Stavo per prendere il volo e planare in redazione, ma no... no, in realtà avevo bisogno di stare sola con me stessa, volevo mettere a tacere tutte le voci, tutte le voci che mi ronzavano nella testa, volevo un po’ di pace... forse una passeggiata lungo il fiume mi avrebbe aiutata.
Uscivo e, accompagnata dalla sottile falce in cielo della Luna Crescente, arrivavo al fiume. Rimanevo ad ascoltare il suono dell’acqua che scorreva e decidevo che sì: era stata una bella idea.
Mi sedevo sull’erba a gambe incrociate a gustare la notte e il silenzio e il buio e l’assenza di afa e ragionavo - senza affanno, quasi con dolcezza - sulla mia incredibile capacità di scatenare vespai senza volerlo (o volendolo fortemente... uhm, la linea che separa la volontà dall'involontarietà talvolta è così sottile...)

Il copione della mia vita:
“Come ti chiami?”
“LaSilvia.”
“Che cosa fai nella vita?”
“Scateno vespai per amor d’entropia.”
È sempre stato così.

Quella volta, però, era andata diversamente, quella volta era stata mia volontà precisa aumentare il caos che regnava sovrano... una specie di gioco, di esercizio, di sfida.
La sfida era stata vinta, potevo andare oltre, potevo andare avanti.
Ma faceva caldo, un caldo gobbo e l’aria del fiume era l’unica magia che poteva farmi tornare a respirare.

Ah, che pace... nulla mi poteva disturbare, nulla... nulla a parte un improvviso urlo disumano.
“Yallaaaaaaaaaaaaah!”
“MiSchiachespaventoziocane! Sagliets! Che cosa Razzo fai QUI???”
“Sono venuto a partecipare alla gara di limbo: ta- tata-tatà, ta-tata-tatà, Tequila!”
“Santa Dea, fulminalo qui seduta stante, liberami dal rumore che egli produce, poi fallo ritornare in vita, va’...”
“Ti ho cercata in redazione: non c’eri. È stato solo grazie al chip localizzatore sottopelle che sono riuscito a trovarti...”
“Era proprio necessario?”
“Che cosa?”
“Trovarmi.”
“Sì.”
“Non potevi aspettare fino a domani mattina, Sagliets?”
“Sì.”
“E allora perché sei venuto a disturbare questo mio piccolo momento di pace? Mi sembra che ci sia già stato troppo casino questa settimana, no?”
“È quello che volevi: trovo inutile lamentarsi ora.”
“Non mi sto lamentando, ciccio, anzi... sto gongolando e sono tanto felice, sai? Ho avuto la riprova che c’è tanta umanità in quella che un tempo chiamavamo Grande Famiglia, tanta umanità... tanta e varia... molto varia... così varia che...”
“Che?”
“Ne parliamo un’altra volta: ascolta il fiume, non trovi che sia rasserenante?”
Rimaniamo in silenzio per un’undicina di minuti - fatto inusuale trattandosi di noi: probabilmente l’Apocalisse è vicina - e poi sospiro.
“Che c’è, strega?”
“Mauretti, ti ricordi di quando avevo trovato quella Bandiera del Toro tutta stracciata, in mezzo a foglie secche e polvere?”
“Ovviamente sì... mi fa sempre effetto vedere le foto che le avevi fatto... così come mi ha fatto effetto vederne la foto sull’innesco del vespaio che hai provocato... quando l’avevi trovata? Quattro, cinque... quanti anni fa? Non mi ricordo più...”
“Quasi cinque anni fa: era il tredici settembre duemilaotto.”
“Come diavolo fai a ricordare le date di tutto?”
“Boh, è una mia dote, una di quelle doti un po’ inutili e un po’ no... è anche una maledizione ma, di nuovo, ne parlaremo un’altra volta, se non ti dispiace... ricordi com’era andata?”
“Uhm... c’era stato una specie di uragano su Torino e tu...”
“... e io l’avevo vista lì per terra e allora...”
“...e allora eri rimasta a guardarla ed ascoltarla e quindi...”
“... e quindi l’avevo fotografata e poi l’avevo raccolta e me la ero...”
“... te la eri portata al petto perché tu...”
“... perché io...”
“... tu sei sempre Madre: abbracci con amore... e poi l’avevi fatta volare e...”
“... e emetteva un suono ruvido e poi l’avevo...”
“... l’avevi appoggiata dove l’avevi trovata nella speranza che il suo proprietario la ritrovasse.”
“Io non mi capacito, Mauro, proprio non mi capacito.”
“Di che cosa, Silvia?”
“Non capisco come si possa pensare che le foto di quella Bandiera così maltrattata dagli elementi siano state considerate di cattivo gusto... spiegamelo tu, per favore...”
“Io? No, non hai bisogno che ti spieghi nulla. Ci sono cose che non hanno bisogno di parole per essere spiegate.”

Siamo davanti allo sportello, è un ufficio un po’ trafficato, c’è chiasso, disordine, tutti pretendono, tutti esigono, che caos.
Guardo l’impiegata dietro al bancone: mi fa tenerezza. È cortese con tutti, è cortese anche quando deve rispondere per l’ennesima volta alla stessa domanda. I nostri sguardi si incrociano e le sorrido, così: per pura empatia.
Arriva il nostro turno, ma squilla il telefono: “Scusatemi...”, dice l’impiegata. Davide ed io chiacchieriamo, parliamo del prossimo campionato: anche lui non vede l’ora che incominci, anche lui sarà sempre allo stadio con me (con o senza abbonamento, noi si va allo stadio, ma fallo capire a chi... vabbe’).
L’impiegata si scusa a gesti per l’attesa, le sorrido, riprendo a parlare con Davide.
Davide che mi propone tre diverse formazioni, Davide che ha la fiducia che è giusto avere a tredici anni, Davide che è stato scelto dal Toro, Davide che è mio figlio ed anche un po’ mio complice di follia.
La telefonata finisce: “Scusatemi se vi ho fatto aspettare...”
“Si figuri: so com’è...” Le sorrido di nuovo.
“Signora, scusi se mi permetto, ma ho sentito che parlavate di calcio... per caso...”
Smette di parlare e con gli occhi segue un percorso ben preciso: prima guarda il mio petto, poi i miei polsi, alla ricerca di un segno e io - stranamente - capisco.
Capisco e le dico: “Sì, siamo del Toro.”
Adesso è lei a sorridere, adesso sorridiamo in tre.
Non mi capitava da un po’ di tempo e non capitava neppure a lei.
Non ci capitava di riconoscerci in mezzo alla folla.
E allora ci raccontiamo, ci raccontiamo il nostro Toro, il suo e il mio e anche quello di Davide, e anche se in alcuni momenti ci sono diversità, il Toro è sempre quello, è una specie di vortice di energia, un’energia che spesso schiaccia, ma quando ci si incontra e ci si riconosce, quell’energia è luce e respiro e pace.

“Che bello, Silvia, che bello... una volta ci capitava più spesso.”
“Che cosa, Mauro?”
“Di riconoscerci, di riconoscerci senza etichette.”
“Magari ritorneremo a riconoscerci, chi lo sa...”
“Senti, fai una cosa: speralo tu e speralo anche per me, d’accordo?”
“D’accordo. Ci vediamo da Stringi?”
“Sì, ci vediamo lì tra un mese.”
“Speriamo passi in fretta...”



Questa settimana tocca a “Over the Hills and Far Away” (Led Zeppelin, “Houses of the Holy”, 1973, terza traccia della prima facciata).





Sulle colline e molto lontano: lì andrò a cercare rifugio.
Dedico “Over the Hills and Far Away” ai giorni da qui all’inizio del campionato: ritornerò a gironzolare da queste parti in concomitanza con il medesimo.
SFT