mercoledì 19 dicembre 2012

Poco da dire

Troppo nel cuore


“Saaaaaaaaaaaagliets!”
“Eh!”
“Ciuppa! Vieni a vedere che cosa scrive ‘sto stordito...”
“Balbetti?”
“No, contraggo. Muoviti.”
Sagliets entra nel mio ampio ufficio: è quello con il lucernario. A volte mi fermo qui la notte per osservare il moto degli astri, ma durante il giorno la luce è celata da pesanti drappi Granata.
“Che caz... accendere la luce come tutti i Cristiani no, eh? Queste candele... questi incensi... quel pentagramma disegnato sul pavimento...”
“Pentacolo, Sagliets, pentacolo. Proprio di questo volevo parlarti... anzi: guarda.”
Gli mostro una finestra di chat aperta sul monitor del mio portatile e si avvicina incuriosito.

Pincopallino ha scritto: Ou, oggi è il 12 12 12 O_o
LaSilvia ha scritto: ne prendo atto.

“Ma chicazz’è ‘sto scemo?”
“Boh... uno. Vai avanti a leggere.”

Pincopallino ha scritto: Ma non me lo avevi detto!  >:-(
LaSilvia ha scritto: tanto l'avresti saputo comunque.
Pincopallino ha scritto: Ah... e che cosa ne pensi? :-O
LaSilvia ha scritto: che è come dire due volte 666, il numero della bestia, il numero del demonio, satana, belzebù...

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Erano anni che volevo vedere la partita del Toro contro i genoani.
Vedrò il primo tempo e poi volerò dall’altra parte della città per un impegno della figlia.
Intanto pare che il gemellaggio si sia ricostituito.
Mentre mi viene facile sentirmi gemellata con i Viola, mal tollerare i Ciclisti e §%&$!@#are i gobbi, non ho ancora capito come mi si rapportino le viscere con i Genoani.
Boh, proverò ad ascoltarmi meglio e a capire.
Più semplicemente, forse, l’amore non è uguale per tutti... e meno male.

Che ‘pareggino’ disperato.
Provo a pensare ad altro.

È stato strano andare al bar l’altro giorno.
C’era solo un tizio seduto ad un tavolo, con gli occhi immersi in un giornalaccio che pretenderebbe di essere autorevole ed effettivamente lo è: vi si possono produrre magnifici coriandoli.
Scambiando chiacchiere con la barista, mi avvedo che il tizio di cui sopra si è alzato affiancandomi: “Buongiorno, signora!”
“Ma buongiorno, Professore!”
“Ha visto che avevo ragione? Per il Derby, dico.”
“Ovviamente, Professore, ovviamente...”
Si rivolge alla barista.
“Lo sa che noi siamo vicini di casa?”
Tra me e il Prof glielo abbiamo già detto ottocento volte.
“E lo sa che una volta ho saputo che era andata male senza manco accendere la TV? Nel silenzio del pomeriggio ho sentito urlare quella parola con la doppia zeta, ho guardato l’orologio, mancavano venti minuti alle diciassette ed ho capito che il Toro stava perdendo.”
Frizzi, lazzi, risate.
Ci accade spesso di ridere e sono risate che hanno lo stesso significato delle coperte o degli abbracci quando fa troppo freddo.
No, con la rabbia con riusciremmo a scaldarci... o, quanto mento, sarebbe un caldo illusorio e non basterebbe a curare la pena che proviamo.
Più semplicemente, forse, la pena non è uguale per tutti... e meno male... ma anche no.

Pincopallino ha scritto: Smettila. :-/
LaSilvia ha scritto: ... il diavolo, il male, gli inferi, il maligno...

“Certo che quando ti ci metti sei terribile, eh?”
“Sì, Sagliets, mio malgrado devo darti ragione.”
“Allora si spiega tutta quest’agitazione intorno alla data di oggi: i Maya avevano anche previsto che oggi, 12 dicembre 2012, tu mi avresti dato ragione. Sono commosso.”
“Sagliets... vabbe’... guarda! Guarda! Continua!”

Pincopallino ha scritto: dai, smettila... :-(
LaSilvia ha scritto: ... l'apocalisse si avvicina, pentiti dei tuoi peccati anche se forse è troppo tardi...
Pincopallino ha scritto: Cazzo... mi stai facendo paura... :-(((
LaSilvia ha scritto: molto bene: ciao, 666 volte ciao: vado a fare un sabba.
Pincopallino ha scritto: No, dai... smettila... D:
LaSilvia ha scritto: muhahaha! [chiudo la finestra di chat]

“Sei proprio una stron§a...”
“Sì. Decisamente. Non sei il primo a dirmelo, ma quanto meno lo fai di persona... devo ammettere che non ti è mai mancato il coraggio per affrontarmi direttamente... anche se, a dirla tutta, faccio paura come un gattino con le labbra sporche di latte... vabbe’, che cosa facciamo adesso? Preferisci una lezione di Magia Nera, metto su ‘The Song Remains The Same’ oppure andiamo a svolazzare intorno alla Mole?”
“No, grazie, devo finire di scrivere una cosina...”
“Ina?”
“Ina.”
“Oh no...”
“Yoko?”
“Cucu”
“Merlo”
“OK, vada per i Beatles: il White Album è lì, lato B del primo disco, terza traccia, piano con la puntina, piano... OK: puoi andartene. Sciò. Andas. Ciau.”
“Ma che maniere...”
“Sssssssh!”

Non riesco a stare zitta. Quasi mai. Codesto tratto della mia confusa personalità mi ha causato tanti guai, tanti. Codesto tratto della mia confusa personalità mi ha reso più forte. Quanto vorrei non essere forte, talvolta. Quanto vorrei limitarmi a vivacchiare in silenzio senza farmi trascinare, guidare, controllare, soverchiare dalla passione. E invece no. No, no, no. Invece piglio quattro gol dal Milan e il giorno dopo m’aggiro per i miei percorsi abituali con un cappellino Granata. Alcuni ridono. Alcuni sorridono. Alcuni timidamente dicono: “‘sto Toro...”. Alcuni orgogliosamente declamano: “Forza Toro!”. Io che cosa posso fare? Dire “Sempre!” e mettere una tacca in più sulla pagina (pure quella infinita) su cui contabilizzo tutte le volte in cui avrei voluto provare a stare zitta.
Perché mai dovrei rinunciare ad un “Sempre!”? Boh, così... per sperimentare una forma di passione più silente e schivare gli inevitabili meandri in cui il Toro mi fa girare come una trottola.

“OK, me ne vado, ma... tutto bene?”
“No, ma fa lo stesso.”
“Posso chiederti che cosa c’è che non va?”
“Tutto questo amore, Sagliets, tutto questo amore, tutto questo Toro... a volte mi schiaccia un po’, mac lon...”
“Capisco. È un po’ come essere a digiuno da anni ed avere timore ad essere nutriti e correre il rischio di vomitare...”
“Sì, una cosa del genere... vai, ora: Luna e Mercurio sono congiunti in Sagittario, così come Marte e Plutone in Capricorno... lasciami ai miei oscuri deliri... vai, lasciami qui al buio a non pensare al Toro...”
Sagliets esce con passo lento, chiude la porta, mi lancia ancora un’occhiata, me ne accorgo anche se sto sistemando i drappi Granata fra i quali cerca di filtrare un po’ di luce.
Accendo una nuova candela, un nuovo incenso, rimango a sospirare sotto al peso della mia amata solitudine ... da-dang... catso, ho lasciato aperta la chat, chi diavolo rompe ora?
Mi avvicino al PC.

Sagliets ha scritto: Guarda che l’ho vista... ho visto la lacrima che è scesa sulla tua guancia mentre stringevi forte quel drappo Granata...
LaSilvia ha scritto: e dunque?
Sagliets ha scritto: E dunque forza Toro, Silvietta...
LaSilvia ha scritto: sempre, mauro. chiudo: ciau. [spengo il PC]



Questa settimana tocca a “TooMuch Love Will Kill You” (Made In Heaven, 1995, Queen): si vive, si soffre, si lotta, si muore e poi... e poi si ricomincia.



Dedico “Too Much Love Will Kill You” a chi accetta la morte e sa tornare a vivere.


“Pagina Infinita” torna il 9 gennaio 2013: felice felicità (è diversa dalla felicità così così) a tutti Voi e sempre, nel bene e nel male, forza Toro. 




mercoledì 12 dicembre 2012

Babele

Mille domeniche in una


“Sagliets, hai visto i miei evidenziatori?”
“Butelka!”
“Eh?”
“Kohtisuoraa projektiota!”
“Ah, credevo rispondessi ‘ciuppa’... comunque idiota ci sarai tu, maleducato.”
“I tuoi - prentari! - evidenziatori mi servono per - kopec! - finire ‘sto lavoro senza - singlett! - senso...”
“Senza senso... certo, certo... ma come diavolo parli oggi?”
“Kestane zementu mboilgeog! Non lo so... ho una Babele in testa...”
“Senti, non farla troppo lunga... quando hai finito di delirare riportameli: devo colorare una foto di Jimmy Page! Muoviti!”
“Jimmypagejimmypagejimmypagegnégnégné! Che noia!”
“Come osi?”
“Gneru-gneru-gneru!”
Ci sono giorni in cui non c’è molto da dire sul Toro e allora giochiamo. La Redazione, grazie anche e soprattutto alla sua struttura labirintica, si presta a diventare un campo di gioco. Senza arbitri: che figata.

Domenica.
La sinusite rulez e guardo il Comunale in cartolina.
Otto del mattino.
È presto - ma mai abbastanza - per pianificare: complicanze casalinghe dovute alla mia sinusite e al marito... milanista.
- Decidiamo subito chi la guarda e dove.
- Io in cucina!
- OK, io in sala: bene.
-.Bene che cosa?
- Guardare il Milan in sala.
- Catzzzzzzz, è vero: quando sei lì vincete... la guardo in cucina lo stesso.
- Urlo libero?
- Ovviamente.
- E i bambini?
- Liberi tutti.

Domenica.
Mi scrive Max: “Vieni?”
“No.”
“Che c’è?”
“Sinusite e tristezze.”
“Ti abbraccio, socia.”
“Idem con patate, socio.”

Domenica.
Mi scrive Sabrina: “Ma sei proprio sicura di non venire allo stadio?”
“E come catso faccio? Sto da cani.”
“Mi dispiace...”
“Anche a me.”

“Allora?!? I miei evidenziatori?!?”
“Evidenziagiuves, cucumerlo, trallallà!”
“Sagliets, smettila.”
“Ou. Hai mai ballato col diavolo nel pallido plenilunio?”
“Ovviamente sì, sciocco: l’ultima volta è successo alle Shetland, non te l’avevo detto?”
“In che guaio mi sono cacciato...”
“Allora, ascoltami: la bruma del Mare del Nord si stava riappropriando dei pascoli...”
“Ma smettila, zio cane!”
“What?”
“The pen is on the table, the cat is in the hat.”
“Sì, ciao.”
“Ciaooooooooo! Anche tu qui?”
“Smettila!”
“Vieni alla partita?”
“No.”
“Uffff.”
“Eh...”
“Oh...”
[in coro] “Let’s go!”

Domenica.
Intorno alle 13:57.
“Davide, hai voglia di fare una pazzia?”
“Vuoi andare allo stadio, mamma?”
“Sì.”
“Andiamo!”
Senza biglietto, andiamo.
Il maledetto bus non arriva, chiamo Sabrina. “Sto arrivando. Quando sono lì Samu e Davide corrono a fare la fila per i biglietti, tu fammi trovare una birra.”
Il benedetto bus arriva, saliamo praticamente in corsa, scendiamo, tante sciarpe Granata intorno a noi, ecco Sabrina. “Samu! Davide! Correre! Andare!”, “Ou, Sabri, grazie per la birra”, “Dai, che ce la facciamo!”, “MiSchia, che male, che male, che male, fottuta sinusite!”
Nota per le prossime belle pensate: MAI andare allo stadio in un giorno di freddo porco se il nervo trigemino è incazzato, MAI.
“Mamma, sei una grande! Siamo arrivati in tempo! Dopo posso prendere un panino da Stringi!, eh?”
“Certo, tesoro...”

Domenica.
Intorno alle 17:00.
“Vuoi ancora il panino, ciccio?”
“Sì, per favore... e, sempre per favore, posso non venire più alla partita quando fa così freddo?”
“Come preferisci, ciccio...”
Non so se stia urlando di più il mio trigemino infiammato, il mio egoismo di madre Granata che porta il figlio allo stadio al freeeeddo e al geeeelo, il mio ennesimo profondo percussivo disperato reiterato ignorato dolore.

Domenica.
Notte.
Quasilunedì.
Il Toro è morto, sai che novità.
Non ne ho voglia.
Non ho voglia di consolare chi chiede conforto.
Non ho voglia di prestare orecchio alla mia rabbia.
La mia rabbia... la Rabbia.
Quella mia, sua, tua, nostra, nei secoli dei secoli, amen.
Qualcuno la pagherà per questo scempio.
Per ora stiamo pagando noi.
La ruota gira.
Aspetto.
Fiduciosa.
Perché, se non portassi con me le solite immense sporte di fiducia, non sentirei più nel cuore e nello stomaco quella Bestia dannata che mi porta sulle gradinate ad assistere al nulla.
Quella Bestia dannata... mi consumerà o saprò ancora portarla in alto fino a toccare il cielo?
La Torre di Babele finì per crollare, chissà...



Questa settimana tocca a “Rock and Roll” (Led Zeppelin IV, 1971, Led Zeppelin): quando c’è troppo rumore in testa e nell’anima, è buona norma trovare suoni che coprano il frastuono.



Dedico “Rock and roll” al giorno in cui tutto sarà più chiaro e, in quel giorno, dire “Allora era proprio come sospettavo...” sarà fonte di ennesima amarezza, ma ci sentiremo un po’ sollevati pur se molto molto molto più tristi. 




mercoledì 5 dicembre 2012

Quante ore mancano?

Luce e ombra


“Quante ore mancano, mamma?”

Mi volto a guardarla ed intercetto quegli occhi grandi e azzurrogrigioverdi.
“Quattro ore.”
“Ah. C’è ancora tanto tempo. O forse è poco. Non lo so...”
Ahia: anche nelle sue vene scorre quel sangue che viene influenzato dalle fasi della Luna e dagli accadimenti intorno al Toro.
“Dai, cammina... dobbiamo andare a casa...”
Ferme al semaforo, aspettando il verde, vediamo dall’altro lato della strada il distinto Prof, amabile vicino di casa.
“Quando ci danno il primo rigore contro?” Urla rinunciando all’abituale aplomb.
“Subito dopo il fischio d’inizio, Professore!” Urlo pure io che l’aplomb non so dove stia di casa.
“E subito dopo ne espellono tre dei nostri!”
“Anche quattro!”
È scattato il verde, ci incrociamo in mezzo alla strada, sulle strisce pedonali.
Ci scambiamo ulteriori deliri e, anche se lui va di là e noi andiamo di lì, la direzione in definitiva è la stessa.
Sembriamo i Beatles de no’ antri che attraversano l’Abbey Road de no’ antri e siamo noi altri.
Noi. Altri. Noi. Noi che siamo altro. Noi che siamo altro anche quando non lo siamo. Noi che non vediamo l’ora che ‘sto catso di derby finisca perché l’adrenalina ci ha corroso l’anima,ma essendo la nostra un’anima più immortale delle altre... be’, c’è sempre angolo nuovo da corrodere o - magari - corroborare.

“Quante ore mancano, mamma?”
“Due.”
“Che ansia...”
“Ma no, dai, Giulia... è solo una partita di pallone...”
Non mi piace che usi la parola ‘ansia’: è solo una bimba, è solo una bimba... è solo una bimba e sa descrivere le emozioni con precisione...

“Quante ore mancano, mamma?”
“Poco più di tremilacinquecento.”
“Wow! Mi porti con te?”
“Se te la senti... sì.”
“Se non me la sentissi, non te lo chiederei, mamma!”
Abbiamo appena perso il derby tre (ahia) a zero e lei sta già pensando alla fine di aprile, al derby di ritorno, al suo primo derby allo stadio...
“Hey! Vengo anche io, vero?”
“Volentieri, Davide, volentieri.”

Non ho dormito molto bene nella notte fra sabato e domenica.
Tutta colpa dell’influenza.
Tutta colpa del derby.
Tutta colpa di uno striscione vergognoso (Dea mia, rendi sterili gli imbecilli che non rispettano né vita né morte!).
A dirla tutta è una vita che non dormo molto bene, ma questo è un altro paio di maniche.

Ricordo che una volta non avevo dormito assolutamente per un buon numero di notti e nel corrispondente buon numero di giorni mi ero trascinata per il mondo oscillando come le canne sulle rive di un lago in una valle troppo battuta dal vento.
Mi sembrava che non ci fosse abbastanza aria per respirare, mi sembrava di camminare su gusci d’uovo, mi sembrava di essere sul punto di spezzarmi... ma quelle notti e quei giorni non mi avevano spezzato: avevano solo dato una botta eterna alla beata incoscienza dei miei quindici anni.
Era un sabato, ero andata in campagna: fine settimana lungo, il lunedì sarebbe stato il giorno dell’Immacolata.
Faceva troppo freddo per stare in fondo alla piazza, come di nostra abitudine, ad ascoltare musica con quel registratore scassato che era il ponte che ci univa, vero, Marco?
Ci eravamo rifugiati sotto ai portici, eri entrato nel bar, ne eri uscito con due tazze di cioccolata calda e La Stampa.
Te ne ricordi? Sì, ne abbiamo parlato giusto un mesetto fa... quando abbiamo detto in presenza dei nostri figli: “Una volta noi eravamo il re e la regina della piazza!” e loro ci hanno restituito uno sguardo pieno di punti interrogativi e di... compassione? Oh be’, non importa...
“Perché hai preso il giornale?” Ti avevo chiesto con la voce di chi ritiene essere stata lesa la propria maestà.
“Ho letto una roba...” Eri impallidito.
“Che succede, Marco?”
“Si’, ho letto che...”
“Cosa?”
“Qui...”
Non avevo capito subito dove fosse il qui che tanto ti aveva atterrito, ma poi ero impallidita anche io.
























(*)

Eravamo rimasti zitti a lungo e poi tu avevi rotto il silenzio.
“Per quest’anno può bastare...”
“E se non fosse finita qui?”
“Ma smettila! A forza di leggere Leopardi sei diventata una catastrofista assoluta!”
“Io ho paura...” Ti avevo detto sottovoce.

Non ci piaceva l’idea della morte.
Non ci piaceva l’idea della fine.
Non ci piace neppure adesso, ma allora - a quindici anni - non ci piaceva ancora di più.
Il fine settimana si era fatto cupo, ma la cioccolata calda aveva un po’ ammorbidito gli spigoli nuovi che ci erano improvvisamente spuntati.
Il lunedì sera ero tornata a Torino: che belli i fine settimana lunghi, anche quando erano gelidi.
Il giorno dopo ci aveva svegliato la morte di John Lennon.

Altro che valle tempestata dal vento.
Altro che canne piegate al suolo e a pelo d’acqua.
Era l’Apocalisse.

Non ci eravamo spezzati, no, anzi: avevamo imparato qualcosa di nuovo e terrificante.
Avevamo imparato che da quel momento in poi la vita sarebbe stata una serie di ferite e successive cicatrici, cicatrici incise da un fuoco bastardo, cicatrici da curare e da leggere quando saremmo stati adulti.
“Io ho paura...” Mi avevi detto sottovoce quando ci eravamo poi sentiti per telefono la sera.

Sono passati tanti anni da quei giorni di insonnia e altro si è affacciato sulle nostre strade, nei nostri cuori, sulla nostra pelle, ma quando ci capita di incontrarci è sempre grande l’affetto, è sempre chiudere gli occhi ed essere là in fondo alla piazza con quel registratore scassato, con tutte le speranze improvvisamente gambizzate.
Strano ma vero: continuiamo ad avere sogni, continuiamo a raccogliere cicatrici, continuiamo a scrivere il nostro libro.
Pensavamo che non li avremmo più visti suonare insieme e invece ci hanno fatto un regalo: gran bel concerto quello del 2007, eh? (**)
Hanno voluto aspettare che anche tu diventassi grande e quest’anno, propri nel giorno del tuo compleanno, tu eri al cinema, io pure, e insieme - anche se in città diverse - siamo stati parte del Celebration Day. (***)

Forse è un bene che quando abbiamo freddo facciamo l’unica cosa che porti sollievo: scaldarci.
La prossima volta, però, la cioccolata calda te la offro io...
Peccato che il calcio non ti sia mai interessato, Marco: saresti un ottimo tifoso del Toro.

“Quante ore mancano, mamma?”
“Non lo so.”
“Ma... ma come... tu sai sempre tut...”
“No, io non so mai un cavolo di niente però...”
“Però?”
“Però adesso ho sonno e voglio fare un bel sogno: fallo anche tu, dai...”
La guardo negli occhi, poi guardo anche lui.
Li accompagno nella loro camera tenendoli per mano, do loro la buonanotte, li ascolto chiacchierare fra loro fino a che il silenzio si fa tutt’uno con la notte, vado a guardarli.
Respirano con il ritmo giusto, spensieratezza e dolcezza, soffio un bacio silenzioso verso di loro e vado a coricarmi.
La testa sul cuscino innesca il film del derby appena vissuto, sento salirmi il nervoso nelle vene, quando un pensiero si fa strada dentro di me.
“La maledizione di Maspero è viva e lotta con noi” dice una delle mie voci interiori.
Mi sembra di avere voglia di sorridere.
Poi un altro pensiero: Giulia che, durante la partita, mi chiede se può dire una parolaccia.
“Certo, tesoro, di che cosa si tratta?”
“Me*da. La me*da mi fa schifo.”
Lo dice guardando gli strisciarelli.
“Oddea, se racconto questa cosa chiameranno il Telefono Azzurro...”
Mi metto quasi a ridere.
Lì, con la testa sul cuscino.
Improvvisamente mi rendo conto che l’adrenalina, che credevo esaurita, torna a scorrermi dentro lavando via la sensazione di rabbia e di impotenza, sì: impotenza.
Avrei passato un’altra notte insonne, a quel punto ne sono certa.
Ma a dire tutta la verità... non mi interessa.
Inizio a contare (anzi: inizio a contare di nuovo, ancora una volta, e chi mi ferma?) le ore che ci separano dal prossimo derby e placidamente entro in un sonno sereno e privo di sogni.

Al mio risveglio sono un groviglio di capelli ed emozioni e, onestamente, non potrei desiderare di più.
Il conteggio va avanti e la sofferenza della sera prima si è un po’ allontanata.

Come una canna piegata dal vento non mi sono spezzata neppure questa volta... forse il dicembre del 1980 è ancora vivo dentro di me e, visto che di vita si tratta, ben venga.
Forza Toro sempre, con amore ed amarezza (soprattutto il primo dei due).

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Che cosa accadde nel 1980?
Il 25 settembre morì John 'Bonzo' Bonham.
Il 4 dicembre i Led Zeppelin annunciarono il loro scioglimento (La Stampa ne diede notizia due giorni dopo, v. trafiletto).
L’8 dicembre Mark Chapman rubò al mondo John Lennon. “Mr. Lennon?” “Yes?” [cinque colpi di pistola]. Chapman: continua a marcire dove sei.
N.B. Il registratore scassato, con cui Marco ed io rendevamo più gioiosa la piazza, esiste ancora: è nell’armadio delle cose preziose insieme con le musicassette, quasi tutte.
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Questa settimana tocca a “Instant Karma!” (singolo, 1970, John Lennon): “Be’, tutti noi splendiamo come la luna e le stelle e il sole”... tu continui a splendere, John, sempre di più, sempre di più: grazie.





Dedico “Instant Karma!” a chi non dimentica di avere avuto quindici anni e vive ogni stagione della propria vita assaporando tanto la luce quanto l’ombra.



(*) Dall’archivio de “La Stampa”, edizione del 6 dicembre 1980, pagina 19.
(**) Il 10 dicembre 2007, a ventisette anni dal loro scioglimento, i Led Zeppelin hanno suonato insieme presso la O2 Arena di Londra. Alla batteria un immenso Jason Bonham, figlio di John Henry ‘Bonzo’ Bonham.
(***) Il 17 ottobre dell’anno in corso ha avuto luogo il Celebration Day: nei cinema di tutto il mondo è stato trasmesso il DVD del concerto di cui sopra. Un ringraziamento speciale a Paolo, Sara e Claudio per avermi accompagnata a vedere i Led Zeppelin al cinema: è stato emozionante oltre ogni immaginazione.




mercoledì 28 novembre 2012

Che cosa posso farmene...

... di questa paura?


Ci stavamo annoiando, quel pomeriggio. Mr. Lambs aveva sparacchiato boli di pelo e materia digestiva parlando di filotti di scudetti che solo il Toro e gli strisciarelli avevano infilzato.
Tutta la Redazione era preda di un sottile nervosismo che, appunto, dissimulava con la noia.
DA-DANG-DA-DA-DANG: suona, senza piangere, il telefono.
“Che cosa vuoi, Sagliets? Lasciami in pace. Punto.”
“Noiosa. Ho scaricato una App fighissima, scaricala anche tu.”
“Scaricabarile. Se magari me ne illustri nome e virtù...”
“Si chiama ‘Ciaparàt’: è un sistema di messaggistica ed è agggratis!”
“Vabbe’, dai, appena ho tempo lo scarico... vai a scrivere un po’: sei solo a pagina 814 della tua prossima Polaroid...”
“Quanto sei antipatica!”
“Quanto sei noioso! Dai, sto downloadando... ciao ciao ciao, sei ancora lì? Ciao.”
Click.

Sì, sì... sì.
Il pensiero è lì a sabato sera.
Inizio dell’Avvento? No, sera di Derby.
Io so già come andrà a finire: ho dato uno sguardo nella sfera di cristallo ed ho visto.
Non so come sentirmi relativamente a ciò che mi è stato di conoscere in anticipo.

Allora.

Sarà un pareggio del piffero. Porte inviolate. Una noia mortale. Partita tesa, poco gioco. Tensione a mille sugli spalti che andrà scemando in un addormentamento globale. L’unz-unz allo scadere del novantesimo minuto farà partire un coro di “Bastaaaaaa!!!” dalla zona Granata, quella senza seggiolini... si sa: noi li divelliamo. Un sabato sera del cavolo.
Sarà anche una sonora sconfitta, di quelle che “Ti ricordi quella volta in cui?”/”Preferisco non pensarci”. Risultato tennistico. Noi burro, quelli là coltello. Sarà, però, una vittoria sugli spalti. Ah, se solo fosse possibile contare tutti i punti fatti dai tifosi Granata... avremmo già vinto la Coppa VivalafantasiachelaSilvianonciportavia.
Infine vinceremo alla stragrande grazie alla tripletta di Gattino Gillet e grazie alla regola secondo cui ogni gol di quelli là si considera come gol in negativo, ma siccome quelli là e la matematica appartengono a due regni differenti e non comunicanti, quelli là faranno millemila gol prima di rendersi conto di aver perso millemilaetre a uno (su rigore).

Tutto chiaro?

Bene: i sogni.
Parliamone.

Una volta ho sognato di aprire il portone del Filadelfia a Gigi Meroni.
Aveva dimenticato il cappello negli spogliatoi, io avevo le chiavi in mano.
“Puoi farmi entrare?”
“Sì, Gigi... fai attenzione però...”
“A che cosa, Si’?”
“Fai attenzione a non cadere...”
“Farò attenzione, Si’... a fine anno magari esce qualcosa di nuovo dei Beatles, non vorrei perdermelo...”
“Sì, ma tu non ci sarai più.”
“Ah, già: mi ero dimenticato di essere morto.”
“Vabbe’, anche se sei morto vuoi o non vuoi recuperare il cappello?”
“Certo! Vieni giù anche tu: voglio mostrarti una cosa.”
Scendevo la scala di pietra insieme con Gigi, lui entrava nel tunnel dicendo: “Vai, adesso vai.” e allora risalivo.
Al terzo scalino vedevo il volto di un Amico, entrato anche lui nella nostra Casa, sorridere prima di dire: “Lo sai che stai per entrare in campo?”
“Sì.” E sorridevo anche io.
Riprendevo a guadagnare un gradino dopo l’altro e, sì, entravo in campo e il campo era proprio quello: il campo del Fila.
Fine del sogno.
La mia vita onirica è lisergica: wow.

L’App si installa e immediatamente una vibrazione scuote la scrivania: to’, Ciaparat è in funzione... e figurati se non è lui: Sagliets.
- Hey, you!
- Mi?
- Sì, ti! Sai che cosa vuol dire SSH?
- Ovviamente no.
- Silvia in the Sky with Hair.
- Sagomina. Jimmy Page is God. John Lennon is dead.
- And I’m good.
- I am the walrus.
- I’m bad. Cu-ch-chi-cu.
- Non sei bad, sei badola.
- Quanto sei str... strana.
- Gatto miao.
- Cane bau.
- Giraffa girrrr
- Frullino frrrr
- Oggi sei molto dazed and confused.
- Yes. Are you ready? Are you ready for this?
- You need coolin’...
- Hai visto il mio colino?
- Sì, ce l’hai in testa.
Ci sono App più pericolose di un mitra fra le mani di un bambino di due anni.

Una volta ho sognato di vincere il Derby: probabile retaggio di quando giocare il Derby faceva parte della normalità campionatesca e poi eravamo inevitabilmente contenti per qualche giorno.

Ero contenta anche domenica. Mi piace quando c’è Toro-Fiore: è un po’ come essere a Woodstock.
Quei due orsi della Stefi e di mio figlio se la contavano ciarlieri e un po’ mi sentivo esclusa dal loro chiacchierare e, a dirla tutta, a volte non mi dispiace non essere direttamente coinvolta negli eventi, mi piace rimanere ad osservarli.
L’atmosfera era quella che piace ai vecchi hippies come me: peace, love & music. Oh be’, per quanto riguarda la musica si possono fare aggiustamenti (prima della partita l’unz-unz era troppo Venaria style, che diamine), ma c’erano buone vibrazioni.

Una volta ho sognato che tutti i gobbi che incontravo per strada (Ou! Sono tanti!) mi dicevano: “Grazie per i sei punti che ci regalerete quest’anno!” e poi capivo che non era un sogno, bensì il solito incubo: quelli là mancano sempre di originalità e mi annoiano, mi annoiano, mi annoiano.
Li temo, ovviamente, e mancano pochi giorni a quella che potrebbe essere una strage annunciata e allora che cosa posso farmene di questa paura?
Parlarle insieme e dirle di non rompere troppo le cispole.
E che catso sarà mai un Derby? Vita. Anche quando uccide, sì.



Questa settimana tocca a “Immigrant Song” (Led Zeppelin III, 1970, Led Zeppelin): far sentire l’intro ai Ragazzi prima di sabato sarebbe cosa buona e giusta.





Dedico “Immigrant Song” a tutti i gobbi che riusciranno a dirmi qualcosa di originale, ma così... no, così non la dedico a nessuno... oh, mannaggia... allora la dedico a me ed ai casi della vita: spesso sono belli (i casi della vita, ovviamente... io... io me la cavo, semplicemente me la cavo).




mercoledì 21 novembre 2012

Un regalo è un regalo

Un rigore è un rigore


“Sagliets! Come al solito non hai capito una cippa di ‘sta lippa! Kimono, ha detto kimono, non ‘di meno’! Puoi continuare a scrivere pezzi da ottordicimila caratteri! Hai letto la circolare del Diretùr o è sparita in mezzo a tutti gli appunti sulla scrivania? E non ti azzardare ad incolparmi per il TUO disordine!!! Allora... keep calm and listen to the Beatles: metti su ‘Magical Mistery Tour’, muoviti. Oh, bene. Dunque: la circolare del Diretùr diceva che ogni venerdì dalle diciacquindici alle parentotto ci troveremo presso la Torre Nord della Redazione per il corso di Giù Gitsu e che troveremo i nostri kimono sugli scaffali bassi della Torre Ovest... tutto chiaro, ora? Bravo, Sagliets, cuccia, Sagliets... tra l’altro in Scozia mi è capitato di incontrare un tifoso del Toro che...”


- Dario, allora... la ragazza ha deciso di seguire il tuo corso di Ju Jitsu...
- Va bene, sono contento, ma... non scrivi più su Toro Chips?
- No, che diamine! Bisogna cambiare nella vita, bisogna andare avanti, sempre! Guardare al passato con gratitudine e procedere verso il futuro... ma scusa?!? Devo spiegarlo IO a TE? Sei o non sei Granata? E allora... e allora leggi [testata su cui scrivevo], che diamine!
- [ride] Uno di questi giorni ti porto un regalo.
- [ridacchio] Naaaaaa...
- Non ti dico che cos’è: sarà una sorpresa e sono sicuro che ti piacerà!
- Va bene: mi fido... alla prossima, Fratello...
- Sì, alla prossima!

Giulia ha deciso di fare Ju Jitsu, dunque.... Apocalypse Now per casa, questo è il futuro di Davide.
Staremo a vedere.
Io gliel’ho detto.
Le ho chiesto: “Sei sicura di voler praticare una disciplina che inizia nello stesso modo di quelli là?” Lei, trulla trulla, ha risposto che quelli là si chiamano quelli là e basta.
Quanta saggezza in quella piccola creatura: brava lei e brava pure me. Uno a uno, palla al centro.

Già... quelli là... l’elettricità pre-derby inizia a sfrigolare dentro di me. Ho tutte le paure del caso. Ho tutto l’amore necessario. Non ho nessuna aspettativa, né di correttezza arbitrale (ahahahahahaha!) né di vittoria. Ho solo il battito cardiaco più accelerato del solito. Il conto alla rovesciato è innescato. Non posso più fermarlo...

“Silviaaaaaaaaaaaaaa!!! Sono caduto nella botolaaaaaa!!!” L’urlo ferino di Sagliets si spande per gli ampi locali della Redazione andando ad intrufolarsi negli angoli più reconditi di questo... labirinto. Meno male che ho conservato la mappa che ci è stata consegnata dal Diretùr... peccato che sia diventata così piccola... forse non è stata una grande idea tracciarla su una piadina... tutta colpa di Brugnols e delle leccornie che reca seco quando s’appropinqua in terra sabauda... comunque devo salvare Sagliets: volo da lui. Quando metterà un po’ di giudizio mi aiuterà a tracciare una mappa seria di questo dedalo ed ho come l’impressione che ci attendano sorprese, misteri ed avventure... “Vengo a salvarti, tonto... mentre plano verso di te, intona una canzone, dai...”
[Sagliets canta] “uen ai faind maiself in taim of trabols... ahia, ahia! Silvia, sbrigati! Si sono materializzati John Lennon e George Harrison! Mi stanno picchiando!”
“Catso, Sagliets, taci una buona volta altrimenti arriva pure Bonzo con quattro dico quattro bacchette! Fermati finché sei in tempooooo!!!”

… non voglio fermarlo.
Non voglio fermare questo cuore che un po’ di arrende e un po’ no.

- Giulia, lo sai che mancano due settimane al derby?
- Gliela faremo vedere a quelli là!
- Magari, Giulietta, magari... aaaaaaaaaaaaah!  [Percepisco un'ombra che mi si abbatte in prossimità delle scapole e strillo] MiSchia, che spavento!
È Dario, il Maestro di Ju Jitsu: mi arriva alla spalle come un ninja.

- Hey, ciao! Mi hai spaventata! [Giulia ride]
- Ho visto che eri dall’altra parte della strada e sono corso qui... allora: chiudi gli occhi e apri una mano: ti ho portato il regalo!

Deposita qualcosa qualcosa sul palmo disteso.
Chiudo la mano.
So già che quando la riaprirò vedrò una parte di me.
Apro la mano.
È una spilletta del Toro.
Quell’ovale metà Granata e metà bianco che vedevo appuntato sulle giacche degli adulti quando ero bambina.
Guardo la spilletta e richiudo le dita: stringo il Toro nel mio pugno e prometto per l’ennesima volta di prendermi cura di lui, di proteggerlo e di amarlo per sempre ed oltre.

- Ma... perché, Dario?
- Lo meriti più di me.

Non sono sicura che Dario abbia ragione ma - per una volta nella vita - decido di accettare senza farmi altre domande.
Un regalo è un regalo.

Così come un rigore è un rigore.
No, dai... lasciamo stare il discorso rigori.
Parliamo del rigido freddo di queste buie sere di avvicinamento all’Inverno.
Rigori invernali e scarsità di luce.
Rigore. Buio. Mmmm... è come se mancasse qualcosa... che cosa diavolo manca? Ah già: Calvarese.
Il risveglio dopo Roma-Toro è stato traumatico: ho sognato che avevamo perso 7-0.

Ho bisogno di un pensiero bello, subito, qui, ora, adesso.
Uh, sì.
Sì.

Sabato pomeriggio, quando mi son trovata a passeggiare lentamente e per nulla casualmente dalle parti del Fila, raccontavo anche a Giulia la storia di Capitan Ferrini.
Passava di lì una canuta signora che, sentendoci chiacchierare del passato, si è fermata ad ascoltare, per poi prendere la parola.

- Siete del Toro, bambini, vero? [le brillavano gli occhi] E lei, signora: brava. Continui a raccontare le storie che non devono essere dimenticate... aveste visto, bambini, quanta festa c’era qui quando giocava... quando giocavano... be’, pensi, signora, che la Fiat diede una giornata di permesso agli operai perché potessero assistere ai... oh, Signùr... ai funerali [piange]. Non dimenticateli, non dimenticateli mai...
- Non lo faremo, signora [le stringo forte le mani, i bambini ci guardano con occhi spalancati e sorridono]
- Che bello poter parlare del Toro... siete fortunati, bambini, forse non sapete quanto siete fortunati... tanti begli auguri!
- Grazie,signora, grazie e forza Toro!
- Evviva il Toro! [agita il pugno per aria e sorride]

Sì, il pensiero bello.

E il derby si avvicina.
Forza, cuore mio, forza.
Forza, Toro, sempre.


Questa settimana tocca a “A Girl Called Johnny” (The Waterboys, 1983, The Waterboys): quel sax e quel piano mi restituiscono in musica quel senso di malinconia che sempre si aggira dentro di me quando penso al Toro e anche ad altro.



Dedico “A Girl Called Johnny” a chi non ha paura di cambiare.




mercoledì 14 novembre 2012

Vendetta

Il Toro colpisce con le corna


… ero arcistrasicura che riprendere in mano quella fisarmonica avrebbe evocato dolori lontani, seppur sempre vivi, ma non immaginavo che sarebbe andata a finire così.
Dopo aver aiutato Sagliets a ridisporre ordinatamente gli appunti sulla sua scrivania, ho provato ad improvvisare un piccolo concertino nel suo ufficio e lui che cosa ha fatto? Si è trasformato in un camaleonte.
Dapprima è diventato verde bile, poi rosso adessotidounpugno, infine giallo collera. Molto reggae, molto. Tutto ciò perché la mia fisarmonica, porella, è rimasta chiusa in uno scrigno (nel mio ufficio ho molti scrigni e ognuno di essi contiene una storia) per circa vent’anni e, ciò nonostante, si è un po’ rovinata. Ha mantenuto il suo bel suono malinconico ma contestualmente produce spifferi dalle pieghe incartapecorite.
Spifferi... venti poderosi. Gli appunti di Sagliets si sono nuovamente sparsi dappertutto. Un momento estremamente ilare. Per me.
Lui, Sagliets, non si è divertito per niente.
Non sembrava solo un camaleonte, aveva pure denti aguzzi e velenosi come quelli di un mamba...

“… in fondo è un bene che il Biscione abbia piantato i denti avvelenati nel collo della Zebra, almeno tutta ‘sta gente si darà una calmata.
Eccheppalle... stava diventando un tormentone: “Adesso che ci sarà di nuovo il Derby, sarete voi a violare il tempio di Venaria: contiamo su di voi!”
Ou.
Lasciatemi in pace.
Sarei anche un po’ stanco di dover camminare sempre a testa alta, con la schiena diritta, mostrando il mio innato orgoglio... non devo dimostrare niente a nessuno... (ab)battetela voi ‘sta Zebra piagnona... devo fare sempre tutto io?
Risollevare il morale degli Italiani durante la guerra con una Squadra che fa sognare i cuori ancora oggi? Fatto.
Lottare contro il Destino che mi ha portato via altri Raggi di Luce? Fatto.
Veder distrutto il cuore del mio, del vostro, del nostro sentire? Fatto.
Tocca a voi.
Voi altri.
Non a me.
A me non piacciono le luci della ribalta, io sono il Toro.”

Così mi diceva una voce in un sogno che sembrava non finire mai.
La sveglia chiocciava molesta, ma non riuscivo a svegliarmi.
Nel sogno dicevo a me stessa: “Sarò ben scema ad avere puntato la sveglia: sono in vacanza, posso dormire quanto voglio...” e mi rispondevo: “Sì, sei totalmente scema... non è la sveglia: sono i gabbiani.”
Ca§§o, i gabbiani.
Una miriade.
Pochi, se messi a confronto con le pecore.
Tantissimi, se messi a confronto con gli esseri umani.
Dovevo proprio venire fin quassù, al 60° parallelo Nord, per scoprire il deserto e per riconfermare che il deserto mi piace.
A volte mi chiedo se non sia troppo faticoso per i miei figli andare in giro per la Gran Bretagna, che è vicina ma anche un po’ lontana, invece di spaparanzarsi su una spiaggia...
“Che tratta avete fatto in aereo?” mi chiedono.
“Aereo? Io? Scherziamo? No, grazie: ci muoviamo in auto.”
“Ma siete andati lontano! Quanto dista Torino da Lerwick?”
“Duemilaseicento chilometri.”
“Eh???”
“Ciuppa.”

Sono disordinata, terribilmente disordinata.
Eppure ho schemi prefissati, costruiti negli anni, a cui non voglio rinunciare.
Riempire il baule dell’auto di ciò che ci servirà nelle tre settimane a venire ed imboccare la radiale, la tangenziale, l’autostrada, attraversare il ventre della montagna e sbucare in Francia.
Ho paura dei tunnel, io. Mi terrorizzano.
“Se succede qualcosa tu prendi il bambino e io prendo la bambina: poi ci ritroveremo.”
Dico sempre queste parole all’inizio dei tredici chilometri del Frejus.
Poi prendo dal portafoglio il francobollo celebrativo del cinquantenario di Superga (me lo regalò papà) e me lo tengo sul cuore senza dire una parola per tutto la galleria.
A volte penso che il Frejus sia una sorta di salvacondotto per i timpani dei miei familiari: io sto zitta, lì.
Poi si esce, appunto, in Francia e la meta successiva è Calais.
Succede da anni.

… succede da anni, ormai. Me lo ritrovo sempre fra i piedi: Sagliets. A volte ci vogliamo bene, a volte ce ne vogliamo meno. Devo riconoscere, però, che pondera sempre sulle parole che gli vengono dette, nel bene e nel male. Che bravo ragazzo. Una volta o due ha provato a spaccarmi le costole ma non ci è riuscito...

Succede da anni che io faccia sempre la stessa strada per andare allo stadio e ho realizzato solo di recente che in questo schema mentale non c’è nulla di scaramantico. Che strano.
Succede da anni che io abbia un sogno, un sogno tutto particolare, e non riesca a realizzarlo.
Fino ad oggi.
Oh, sì, oggi.
Oggi è una domenica di novembre, l’estate è lontana.
C’era stata un’estate in cui ero andata a vedere una partita e la partita era Toro-Peñarol ed avevamo vinto (Oguro. Sì. Oguro? Chi?).
Non ero sola, ero in ottima compagnia.
Una partita di prova, chiamiamola così.
Era stata la prima partita al Comunale di mio figlio.
Poi ci ero tornata al Comunale con lui.
Non avevo scelto le partite giuste: tre partite, dilazionate nel tempo, tre sconfitte.
Ha insistito, il ragazzo, ha insistito. Bravo, figliolo, che bella lezione mi hai dato, l’ennesima.
Oggi ero sicura che avresti visto vincere il nostro Toro, sicura come sono sicura di avere i capelli ricci, sicura come sono sicura che la vendetta sia stata compiuta.
"Uh, che poveri di spirito quelli che cercano la vendetta..."... le belle balle.
Avevo proprio bisogno di una buona dose di dolcezza e l’ho avuta: si vede che me la merito.
Avevo un sogno... anzi, no: avevo tre desideri e si sono avverati senza dover strofinare alcuna lampada magica.
Primo desiderio: la vendetta contro i Felsinei.
Secondo desiderio: vedere mio figlio che vede il Toro vincere.
Terzo desiderio: realizzare i primi due.

Mi soffermo ancora un momento sulla vendetta, ma solo per fare una domanda a chi si indignerà (“Vendetta? Io? Giammai!”): siete proprio così sicuri di essere così intonsi da poter scagliare prime, seconde e anche terze pietre? Bravi: continuate così. Il mondo ha bisogno di gente pura.
Un saggio un giorno mi disse: “Quelli che sono troppo puri finiscono per diventare impuri: non si può essere solo una cosa e non prendere in considerazione le differenze”.
Il saggio era mio figlio [ndr Egli non è perfetto, grazie al Fato, egli non è per nulla perfetto: mi limito ad ascoltarlo, a cercare di dialogare con lui, ad osservarlo].
Il giorno era l'11 novembre 2012.
Una domenica qualunque.
Una domenica che mi accompagnerà a lungo.
Per le cose dette, per le cose non dette, per le cose che racconterò quando sarà il tempo per farlo, per le cose che non racconterò per non annoiare troppo gli altri e fra gli altri metto pure me stessa, poiché da quando ho imparato a volermi bene i miei limiti mi sono più evidenti ed è bello amare se stessi anche per i propri difetti.
La vendetta, eh? Mi ha fatto riflettere il fatto di aver vinto contro il Bologna con un gol di testa... mi ha fatto riflettere sul fatto che il Caso non esiste e che il Toro colpisce con le corna... uh, quante riflessioni durante e dopo la partita... è stato come vivere qualche ora su più e differenti livelli, come viaggiare nel tempo e nello spazio senza perdere contatto con la realtà... e dicono che è solo una squadra di calcio...




Questa settimana tocca a “Kashmir” (Physical Graffiti, 1975, Led Zeppelin): “Oh lascia che il sole mi sferzi il volto, che le stelle colmino i miei sogni, sono un viaggiatore sia del tempo sia dello spazio, per essere dove sono stato...” dicono i primi versi del brano e mi hanno fatto da mantello e da giaciglio mentre il cielo si faceva cupo tutte le volte in cui si è fatto cupo. E poi tornava il sole.



Dedico “Kashmir” a chi sa rimettersi in gioco.




mercoledì 7 novembre 2012

Quando sarò grande...

... voglio essere proprio come lui


… “Vuoi smetterla una buona volta? Mi fai volare via tutti gli appunti che ho sparso sulla scrivania! Svolazza altrove, sciò! Sciò!”
Le urla di Sagliets si spandono per i corridoi della Redazione. Non capisco perché si innervosisca così quando plano nel suo sancta sanctorum: io sto mantenendo la mia promessa.
Non gli ho più parlato né delle Shetland né dell’Irlanda, che cosa cavolo vuole da me?
E che colpa ne ho - io! - se tiene sempre le finestre spalancate? Fa un freddo gobbo, brrr brrr... a proposito di brrr: non appena si calma gli racconto delle Ebrrridi.
Ah, le Ebridi: panorami da paura...

“Paura! Paura dappertutto!”
Queste sono le parole che esclamo mentre sono al telefono con la Stefi.
Il Toro è sotto assedio.
Paura. Paura dappertutto.
L’incornata di Glik, la risposta di Mauri, il Toro cala, il Toro cede, che mal di stomaco, ma non c’era la regola che se il Toro è in vantaggio l’arbitro fischia la fine della partita?
No, mi dicono di no, mi dicono che la regola è ancora al vaglio, mi dicono anche che - qualora ratificata - varrebbe solo per l’altra squadra di questa bella città.
Il Toro è sotto assedio, ma direi bene, volitivi, di temperamento, dai.
“Paura! Paura dappertutto!”
La Stefi ride e la sua risata percuote con violenza il mio timpano sinistro.
Pensavo di prendere una caterva di botte contro la Lazio e invece no.

Un passo indietro.

“Ma che cos’è questa roba? Ma per favore! Ma dai! Ma uffa!”
Quando la congiunzione ‘ma’ si fa troppo frequente nel mio discorrere, nel mio pensare, nel mio esistere, significa che non c’è la giusta coincidenza fra ciò che vedo e ciò che è comprensibile.
Baaam.
Doppio baam.
Due fette di prosciutto di Parma. E poi una terza.
Urca, che botte quella notte (licenza poetica: ci sono pomeriggi che sono bui, non già come Gianni, bensì come la notte del Solstizio d’Inverno, quella più lunga, misteriosa e oscura).

Un passo indietro.

Palermo.
Pareggio.
Caldo.
Uff.

Un passo indietro.

Torino-Cagliari 0-1.
La partita per me più emozionante degli ultimi anni per motivi che con il Toro non c’entrano nulla e gli sono strettamente correlati.
Andiamo per ordine: facciamo un altro passo indietro, anzi: più di uno... continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato (probabilmente Fitzgerald era del Toro).
Pronti? Via.

È un caldo pomeriggio di primavera inoltrata e sono allo stadio con mio figlio, la Stefi e la Nonna Olga. Giochiamo contro il Genoa e veniamo massacrati. Si scatena una rissa da saloon in campo. Mio figlio decide di chiudere con lo stadio. La settimana dopo il Toro va in serie B e ciao Berta.
Era maggio ed era il 2009.

Ora un passo grande e lungo in avanti.

Il Toro cresce, pianin pianello, e inizia il campionato attualmente in corso.
Mia figlia è diventata la mia abituale compagna di stadio, mio figlio - seppur costantemente sollecitato da ‘sta gran rompiballe che so di essere - nicchia, eppure noto che inizia a cambiare qualcosa in lui... non lo so... sembra guardarci con occhi ‘strani’ quando usciamo di casa per andare al Comunale, ma non osa favellare, non ancora.
Siamo reciprocamente due libri aperti, io per lui, lui per me, ma è lui a fare la domanda, prima che riesca a fargliela io.
“Mamma, alla prossima partita posso venire anche io con voi?”
Jimmy Page si è materializzato al mio fianco facendo partire un breve assolo (solo 37 ore!) con la sua double neck.
John Lennon è sceso dai cieli cantando “Give Davide a chance”.
I miei nonni si sono affacciati fra le nuvole ed hanno sorriso.
“Certo, tesoro... certo.”
Ho risposto in un miscuglio di emozioni che contemplavano il ricordo della nascita di ‘sto ragazzino, il Big Bang, certi tramonti bretoni, la pioggia scozzese, i primi passi sempre del ragazzino in questione, il Toro in tutte le sue accezioni (onnicomprensivamente positive).
Sfoglio rapidamente il calendario: la prossima è Toro-Cagliari.
“Figliolo, io ti avverto: il Cagliari perde con tutti, pertanto contro di noi vincerà. L’algoritmo è certificato da più di un secolo di storia e da seri studi scientifici.”
“Non importa, mamma... cioè: importa, ma io voglio venire con te a vedere il Toro.”
Riprendendomi dalle vertigini causate dall’ennesimo attacco di sindrome di Stendhal che ‘sto ragazzino-capolavoro suscita in me, prenoto i biglietti.
Il sabato mattina andiamo a ritirarli. La domenica ci prepariamo ed andiamo allo stadio. Insieme. Io e i miei figli.
Sapevo che questo momento sarebbe giunto, prima o poi.
Volevo che questo momento giungesse, prima o poi.
Avevo ‘sta coda di pavone che voleva liberarsi per mostrarsi in tutti i suoi incredibili cromatismi e, quella domenica, ho scoperto che non era una coda bensì ali.

… quello sciagurato di Sagliets dirà che si tratta dei miei capelli, interferendo con il mio afflato poetico... chissà che cosa dirà quando il mio afflato calcistico si abbatterà sulle sue ginocchia...

Giunti nell’antistadio, gli amici mi dicevano: “Sembri più alta oggi, che cosa ti è successo?” e poi vedevano i due begli esseri umani che mi contornavano, uno per fianco, e capivano.

Toro-Cagliari.

Prima della partita mi accade di scoppiare in lacrime quando il Capitano omaggia la memoria di Maria Giulia - una Grande Donna - con un mazzo di fiori, ma più che piangere per lei piango per un’Amica che sta lottando per un male improvviso e piango per la mia disperazione e piango perché non so quanto tempo le rimanga e piango perché, in realtà, so che di tempo non gliene rimane molto e poi mi giro a guardare i miei figli.
Siamo qui per partecipare a qualcosa: bando alle lacrime e forza Toro.

A dieci minuti dalla fine, quando era lampante che non avremmo riparato alla sconfitta, mio figlio si è voltato verso di me. Sono passati quasi tredici anni da quando ho incrociato per la prima volta il suo sguardo, ma non posso fare a meno di rimanere sempre sorpresa dalla grandezza e dal colore dei suoi bulbi: è come essere avvolti dal cielo.
Mio figlio si è voltato verso di me, avvolgendomi d’azzurro, e mi ha detto: “La prossima che giochiamo in casa è il 28, contro il Parma: mi porti con te?”
È stato come se avessi sentito dire “forza Toro” per la prima volta nella mia vita e contestualmente avessi percepito la cristallina giustezza delle due parole messe insieme.
Per me è piuttosto normale, anche se spesso sorprendente per l’intensità, cogliere le mie proprie sfumature di Granatismo... cogliere le medesime, se non nuove, sfumature in quegli esserini che mi è stata data la fortuna di portare nel mondo... è estasi allo stato puro.

Qualche passo avanti.

“Paura! Paura dappertutto!”
Durante Lazio-Toro dicevo così ed era la frase che più sintetizzava certi momenti inframezzati da:
- possiamo ambire allo scudetto
- dobbiamo mettere in campo la Primavera
- non giocano male, però...
- sono tutti brocchi (compreso l’omonimo biancoceleste)
Giulia era già nel mondo dei sogni, Davide era lì con me.
Lo guardavo e lui guardava me e mi diceva: “Mamma, ho sonno ma cerco di resistere... se mi addormento sul tavolo e succede qualcosa, mi svegli?”
“Certo, ciccio...”

Essere del Toro significa anche fidarsi ed affidarsi, nonostante tutto e tutti... e mi sa che se sto diventando ancora più grande e più Granata lo devo anche a te, Davide.
A volte i bimbi scelgono la squadra di mamma e/o papà per una forma di ‘ruffianeria’, a volte lo fanno perché scelgono e basta.
Gettano un sasso verso il futuro e poi, magari a piccoli ma costanti passi, vanno a riprenderselo per lanciarlo ancora più lontano e di nuovo partire alla sua ricerca e così via, così via.
Lui, mio figlio, fa così: quando sarò grande voglio essere proprio come lui.
Nel frattempo proseguo il mio viaggio.

Giovedì, mentre ci avvieremo nel buio del mattino verso la fermata del bus, gli racconterò per l’ennesima volta la storia di Capitan Giorgio, la storia di Ferrini che fece in tempo a vedere il tricolore sulle maglie Granata prima di sprofondare nel Grande Buio.
Giovedì otto novembre.
È quasi un sollievo superare l’otto novembre: è l’ultima data triste dell’Anno Granata.
Arriva il tre dicembre, gli animi si rasserenano e poi si ricomincia: continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato (sì, Fitzgerald era del Toro, decisamente).

Un passo avanti.

Napoli-Toro: paura, paura dappertutto. Non vedo l’ora e non è masochismo. Staremo a vedere...

… uh, sì, poi abbiamo visto e mi è piaciuto tanto. Mi piace credere anche dopo che è finito tutto, mi piace credere che esistano momenti in cui la parola FINE non è drammatica bensì gioiosa... mi hanno riferito che Sagliets abbia perso totalmente la voce poco dopo il gol di Sansone... meno male: per un giorno o due, quanto meno, potrò svolazzare liberamente nel suo ufficio senza sentirlo gracchiare come fa di solito...



Questa settimana tocca a “Breathe” (Breathe, 1996, Midge Ure): è un brano così bello da far male.



Dedico “Breathe” a Mauro Saglietti perché sì.




mercoledì 31 ottobre 2012

Il vento caldo dello stadio

La distanza non conta


... uh, quanti arretrati.
Non ce la farò mai.
Sagliets non vuole più sentirmi parlare delle Shetland, mannaggia a lui... oh, be’: appena lo incrocio gli parlo dell’Irlanda.
Lui è sempre così contento quando gli racconto dei miei viaggi in Irlanda: diventa tutto rosso e agita i pugni, proprio come un bimbo piccolo emozionato che ha davanti a sé un nuovo giocattolo. Sì, agita i pugni... che strano individuo. Vabbe’, ognuno ha le sue stranezze. Io, per esempio, volo. Soprattutto con il vento a favore...

… in place Briand a Lorient, davanti a FNAC, aspettando l’ora della cena. Che vento, quella sera.
Era un sabato. Il viaggio stava per finire.
Due giorni prima avevamo fatto sosta a Stratford (“Siamo nel Warwickshire, facciamo vedere la casa di Shakespeare ai bambini?”), poi ci eravamo diretti verso Dover.
Accidenti, lì finisce davvero l’Inghilterra, mannaggia... cioè: lì inizia, ma poi si deve: tornare a casa e allora si deve andare verso Dover e si deve prendere il traghetto e si deve stare lì, a guardare l’Inghilterra che si fa lontana, sempre più lontana... che male, che male... un po’ come quando il Toro gioca strano... e negli ultimi anni di Toro/Dover ce n’è stato parecchio e non ci voglio pensare, voglio avere fiducia, perché se perdo la fiducia io, il mondo dovrà fare a meno dei bicchieri e sarà un problema.
Sì, un gran problema.

... non ce la farò mai. Dove sono finiti i Post-it? Eccoli. “Parlare del concetto di CASA”. Mo’ dove lo attacco? Idea geniale: su un pugno di Sagliets! Se solo stesse fermo per un momento...

Appena messe le ruote in Francia, abbiam pensato di dirigerci verso Strasburgo, ma è successa una cosa strana: l’auto non ne ha voluto sapere. Ha fatto una pernacchia e si è diretta verso Ovest.
D’altra parte si sa: the West is the best (rif. “The End”, The Doors, 1967).
“OK...”, Abbiamo sospirato tutti in coro.
“Bretagna sia anche quest’anno! Kenavò!” Abbiamo esclamato, sempre tutti in coro, prima di improvvisare una gavotte nel porto di Calais.
La notte ci ha sorpresi... no, un momento: sapevamo che sarebbe calata la notte, ma la settimana lassù a Nord ci aveva imbevuti di un concetto differente relativo alla quantità di ore diurne e notturne... comunque la notte ci ha sorpresi in un posto sperduto della Normandia: Torigni-sur-Vire.
TORigni-sur-Vire.
Guarda il caso, a volte... buona notte.

Il giorno dopo è stata Bretagna, è stato Morbihan (ma qant’è bello il Morbihan, tanto tanto tanto).
Il viaggio stava per finire: tanto valeva godere gli ultimi momenti di oceano.

Nelle due settimane passate non avevo incontrato nessuna traccia di Toro, se non sulla mia faccia quando mi capitava di passare davanti ad uno specchio, ma la sensazione - spesso e poco volentieri - era quella di essere l’unica pirla sulla Terra a dire Toroqui, Torolà, Torosu, Torogiù.
Era la prima volta che mi accadeva, in tanti anni di vagabondaggio.
Il destino, però, voleva che incontrassi il Toro in place Briand, appunto, a Lorient.
Un incontro per nulla convenzionale, pur sempre un incontro: l’unico tipo di sorpresa che amo.

C’era un vento che mi portava via, i riccioli erano oltremodo agitati, avevo perfino un po’ freddo, fame, sonno, nostalgia e il Toro stava per giocare contro il Lecce. Milleduecento chilometri fra il Toro e me.
Sigh.
Ho provato a chiudere gli occhi e a fare esercizio di fantasia per provare ad essere allo stadio.
Niente da fare: quel vento, con il favore delle palpebre abbassate, rievocava altro. Scogliere scozzesi, colline inglesi, spiagge bretoni, prati irlandesi. Ho aperto gli occhi: place Briand, Lorient.
Ufffff.
Ho richiuso gli occhi, mi sono concentrata di più, di più, di più, di... pummmmmmmmmm!!! “What the...???”, ho detto a mezza voce. L’inequivocabile suono angelico di una bomba carta.
“Hey, però... sto diventando brava con le visualizzazioni... le faccio con il soundtrack!” E poi ho visto i fumogeni.
Ho aggrottato le sopracciglia, tirato indietro le orecchie a punta (quando sono da quelle parti ho le orecchie a punta... no, non sono orecchie vulcaniane, sono da elfo), aguzzato lo sguardo: indubbiamente stavo vedendo qualcosa di conosciuto.
Qualche undicina di giovani e meno giovani che si dirigevano verso... lo stadio di Lorient.
“Ca§§o, oggi c’è Lorient-Montpellier!” ho esclamato. “Bambini, bambini! Sapete che il Montpellier ha vinto lo scorso campionato in Francia? Mi sa che sarà una serata difficile per il Lorient... che voglia di stadio... e come ca§§o faccio a seguire la partita del Toro? Oh, come sono triste! Oh, me sventurata! Oh, che roba difficile essere del Toro!”
Due secondi dopo ero avvolta in un groviglio di abbracci di bambini... oh be’, di una bambina e di un... gulp... ragazzo. Sì, mio figlio non è più un bambino. È... sta diventando grande. Che bella creatura. Che belle creature. Quasi come il Toro: roba forte, roba unica, tanta roba.

… devo ricordarmi di aggiungere che il Lorient quella sera ha vinto, ma non adesso, non adesso... Uh! Sto avendo un dejà-vu! Che storia! Devo parlarne subito con Sagliets... appena smette di agitare i pugni provvedo...

Dopo la cena ci siamo messi in auto per tornare verso casa e, mentre rimuginavo sulla mia voglia di stadio, mi è venuto in mente che avrei potuto seguire la partita su Twitter.
Certo, ottima idea.
Peccato per la (s)connessione.
Grrrrrrrrrrrrrrrr.

Cercando di annegare il dispiacere in un bicchiere di sidro, mi contorco come una tarantola sulla sedia del dehors della solita crêperie e... Twitter (insieme con l’sms della Stefi) mi annuncia che abbiamo segnato.
La cameriera è appena giunta al nostro tavolo ed io grido “Sgrrrrrrrrrrrrrrrrrignaaaaaaaaaaaaaa!” Lei si spaventa, appoggia i bicchieri sul tavolo e fugge ululando qualcosa del tipo “Sono pazzi, sono pazzi!”
Decidiamo dunque di appropinquarci ulteriormente verso casa.
Quest'anno ci è andata di lusso: siamo in una casupola in pietra, un vecchio magazzino per gli attrezzi riattato, e davanti è tutto prato.
Che bel prato.
Mi piace molto.
MA: non c’è rete.
Porco miserio.
Nessun segnale.
Campo? Sì, di mais. Sulla destra. A sinistra s’ode un pianto sommesso e grugniti di porcomiserioporcomierioporcomiserio.

Non mi lascio scoraggiare e, dopo vari tentativi, mi rendo conto che rimanendo seduta ed immobile su una sedia davanti alla porta di casa, tenendo le gambe accavallate, sbattendo le palpebre con ritmo regolare, respirando il giusto per mantenermi in vita... be’, ogni tanto riesco ad aggiornare Twitter.
Sai che figata rientrare in casa per fare il Venneri del caso, ritornare sulla sedia e dover ripristinare le condizioni favorevoli di cui prima?
Un delirio.

Al terzo gol ho detto “Ebbbbastamo’!”, ma intanto pensavo “Ancora! Ancora!”, stando attenta a non starnutire (l’umidità notturna Bretone è letale).
E poi la partita è finita e il Toro aveva vinto e io, io, io... avevo vinto anch’io.
Figuriamoci se mi faccio fermare dalla connessione ballerina e dall’umidità e dagli insetti notturni e dalla nebbiolina che saliva lenta, sotto certi punti di vista perfino lugubre, sotto altri meravigliosamente adatta e perfetta.
Perfino la giuve mi sarebbe sembrata perfetta... no, un momento: datti una calmata, figliuola, e riformula... perfino certi piccoli fastidi della vita, i fastidi inevitabili, i fastidi noiosi, i fastidi da “ma che Razzo vuoi da me?”, mi sarebbero sembrati perfetti.
Ero in Bretagna, con le persone con cui volevo essere, il Toro aveva vinto e le stelle... oh, erano tante e - evviva evviva – vere.

… non ce la farò mai. Anzi no: ce la faccio. O forse no. Chissenefrega. C’è chi insiste con Meggiorini, quindi io posso creare un universo con uno schiocco di dita... ou, Meggiorini, nulla di personale, sia chiaro. D’altra parte sono una femminuccia e non capisco nulla di calcio.
Vado a rammendare calzini e a temperare la matita: se voglio che infilzi più di un’ipotetica spada, è bene che sia molto appuntita.



Questa settimana tocca a “I Am the Walrus” (Magical Mistery Tour, 1967, The Beatles):  una delle canzoni più immaginifiche che siano mai venute al mondo.





Dedico “I Am the Walrus” a chi, non possedendo sufficiente eloquenza e contestualmente ritenendosi superiore a chiunque, quando parla raglia di presunzione (disclaimer: non sto parlando di me. Grazie al Fato, non sono tormentata da ossessioni di alcun genere). Goo-goo-ga-joob!